Nel vento tra ghiaccio e fuoco terza puntata

6 agosto: Djupivogur-Höfn (km 109)


Si parte tra pioggia e nuvole basse, per fortuna con poco vento. Peccato per la visibilità, i monti che cingono la strada sulla nostra destra sono coperti da un fitto cappello. Siamo stretti tra altissime montagne di sabbia che sembrano disfarsi, a picco sopra e sotto la strada. In alcuni punti la strada passa proprio sul mare, in altri si allontana in mezzo a enormi distese alluvionali, in fondo alle quali si indovina l'oceano. Dall'alto arriviamo su Hvalnes, "punta balena", una striscia di sabbia nera che racchiude un tratto di mare, separandolo dall'immenso oceano al di fuori. Il mare è vivo e potente, respira, riempie tutto di sé.
Il tempo si apre, arriva un po' di vento laterale dale valli. Le grida degli uccelli marini riempiono l'aria. Oche, cigni, gabbiani, rondini di mare, stercorari, e altri dal nome sconosciuto che si trovano solo a queste latitudini. Siamo a 90 km, dovremmo quasi esserci... compatibilmente con le singolari distanze islandesi. Ma ecco che, davanti a noi, la strada si trasforma improvvisamente in una riga dritta che sale su un colle. Scherzi dei fiordi. Scherzi di questo paese bellissimo e spietato. Per fortuna, a volte la salita si rivela meno dura di quel che sembra - o sei tu che ti convinci, per sopravvivere. Un'ampia curva ed entriamo in una galleria scavata nella roccia. È bellissima anche se fa un po' paura - nel paese della luce nessun ciclista porta le luci, per fortuna è ben illuminata. E soprattutto, finalmente è in discesa. Voliamo leggeri verso l'uscita, dove siamo investiti da una potente raffica di vento laterale che ci fa barcollare di colpo... ma al di qua della montagna splende un sole magnifico. Finalmente arriviamo in vista di un incrocio che segnala 3 km a Höfn. Aumenta il vento. Il sole scompare presto per lasciare posto a nuvole minacciose. Meglio sbrigarsi o anche oggi arriveremo bagnati in campeggio. E così sarà.
Due passi nei minuscolo paese - un porto con poche case attorno - ci danno il primo sguardo sul Vatnajökull, la terza calotta glaciale del mondo e la più grande d'Europa, che in alcuni tratti sembra buttarsi direttamente in mare.
Abbiamo superato la soglia dei 1000 km.







7 agosto: Höfn, riposo forzato


Le fosche previsioni meteo sono confermate. Una burrasca di vento e pioggia rende difficile anche solo uscire dalla tenda. Il vento ulula e piega la tenda, fuori non si sta in piedi, dentro... speriamo che tenga.
Il campeggio è pieno di cicloviaggiatori in sosta forzata. Anche i camper sono fermi. Impossibile muoversi. Qualcuno che prova a partire torna indietro subito. Ne approfittiamo per un bucato e un giorno di riposo assoluto. Nella cucina del campeggio incontriamo tre tedeschi che rivedremo spesso nei prossimi giorni. Un signore anziano con il figlio e un collega. L'anziano è un vecchio ciclista consumato che dispensa consigli ai meno esperti. Tipi umani che si incontrano in tutte le culture e a tutte le latitudini.


8 agosto: Höfn-Gerdi (km 74)


Un po' di pioggerellina con leggero vento contrario è un tempo più che accettabile per partire. Il Vatnajökull è sempre più vicino. Iniziamo a costeggiarlo. Le sue lingue che scendono verso la strada ci faranno compagnia per giorni, sempre al nostro fianco. Il vento si incanala nelle gole e cade fortissimo sulla strada, accentuando la fatica che ogni giorno si fa sentire di più. Ogni tanto, quando vedi passare famiglie o gruppetti di turisti rilassati, al caldo
delle loro automobili e dei loro pulmini, provi un leggero moto di invidia. Ci sono dei momenti in cui vorresti tanto un posto caldo dove fermarti un attimo, ma spesso, come oggi, non c'è. Nella piana sconfinata battuta dai venti del ghiacciaio, l'unico posto dove fermarsi per il pranzo è una specie di fossato a bordo strada, accanto a un ponte, un po' al riparo dal vento. Qui riusciamo ad accendere un fornello e prepararci un piatto caldo. Il tempo di mangiare e ripartire subito, la temperatura non è bassissima, ma il vento ti entra dentro con una sensazione di gelo perenne. Lo combatti solo pedalando. Sulla carta questa zona sembra pianeggiante, ma in realtà la strada sale e scende continuamente per seguire i piccoli avallamenti del territorio. Sono brevi strappi, niente di eccezionale, ma alla lunga ti spezzano le gambe. La fatica, oltre che fisica, diventa mentale. Le pecore ai bordi della strada ci guardano, alcune sembrano salutarci, leggermente divertite da questi strani animali con le ruote. Molte stanno in mezzo alla strada e devi letteralmente girarci attorno.
Un ultimo lungo strappo di salita, e vediamo un bivio per Gerdi. La cartina segna un campeggio che non c'è. Ci sono un hotel e una guesthouse che non hanno posto. Proseguire? A 10 km c'è la laguna glaciale, ma lì forse il campeggio è vietato e non vogliamo rischiare di arrivare per non poterci fermare. E poi le previsioni per domani sono di nuovo orribili... La Guesthouse ci permette di mettere la tenda sul prato pagando un cifra minima, se ceniamo da loro. In realtà, come molte altre, è una fattoria. Dopo poco arriva un'altra coppia di ciclisti, sembrano ancora più spersi di noi. Duri e puri, cucinano con il fornello nel campo freddo e umido, senza riparo, mentre noi cediamo al proprietario della fattoria che ci prepara uno squisito agnello al forno.
La serata è magnifica. Il cielo si è rasserenato. In fondo al prato, l'oceano è tranquillo e si colora di un tardo tramonto, dopo il quale spunta un luna immensa e luminosissima. Dietro di noi il ghiacciaio. Laggiù in fondo, nella direzione in cui andremo domattina, si vede la lingua che precipita in mare.


 9 agosto: Gerdi-Skaftafell (km 76)



Il primo obiettivo di oggi è la laguna glaciale di Jökulsarlon. Dobbiamo essere là all'alba, prima che la magia del luogo sia inquinata da orde di turisti. Sveglia alle 5,30, riusciamo a partire poco dopo le 7 e ad arrivare alla nostra prima destinazione poco prima delle 8. Da lontano si inizia a intravedere l'enorme ponte che attraversa la sua estremità meridionale, quella che finisce direttamente nel mare. L'aria si fa sempre più fredda fino a diventare gelida man mano che ci avviciniamo. È come se qualcuno avesse aperto la porta di un enorme freezer.
A quest'ora del mattino, la laguna è popolata solo dei suoi naturali abitanti. I canti degli innumerevoli uccelli marini assorbono ogni altro suono e danno vita a una mappa sonora fatta di armonie e timbri che cambiano continuamente, accompagnati di tanto in tanto dai tonfi sordi degli iceberg che si staccano dalla lingua del ghiacciaio e si dividono in pezzi più piccoli, per venire trascinati verso il mare. Il momento è uno dei più emozionanti del viaggio. Iceberg di ogni forma, colore e dimensione nuotano nella laguna. In mezzo, silenziose, le foche. Solo le teste spuntano dall'acqua gelida. Ogni tanto si sente il leggero splash di una di loro che si tuffa a pescare. Poco lontano, sulla riva, nidificano alcuni stercorari, gli uccelli predatori più temuti da tutte le altre specie. Solo un uomo passeggia sulla riva, silenzioso. Poco più in là scorgiamo tre tende ... non c'è un divieto specifico, se l'avessimo saputo...
Il freddo è penetrante, sempre più intenso, si fa quasi insopportabile. Apriamo le borse per tirare fuori i piumini, impossibile stare fermi senza. Tanto più che siamo praticamente digiuni.
Dopo un'ora la magia è finita, l'incanto unico del luogo è spezzato dalle masse di turisti in arrivo, che affollano la biglietteria per accaparrarsi un posto sul mezzo anfibio che li porterà in visita guidata sulla laguna. Le foche spariscono, spaventate dalla gente e dai rumori. Anche il canto degli uccelli si fa meno intenso, o forse è solo coperto dai rumori umani. Sopraffatti dal freddo, preghiamo che apra la la caffetteria... dove finalmente ci rimettiamo in sesto con dolci e caffè bollente. È ora di proseguire, la giornata è solo all'inizio e il tempo è previsto in rapido peggioramento. E così sarà, ma per fortuna il vento è abbastanza a favore. E questa, abbiamo imparato, è la cosa più importante. Dalla pioggia e dal freddo ti difendi con abbigliamento adeguato. Dal vento, in bici, non c'è difesa.
Lui, il grande Vatnajökull, è sempre alla nostra destra. Una parte è immersa in una tormenta di neve. La sterminata vastità degli orizzonti permette di vedere a distanza le variazioni del tempo, di capire in quali punti piove o nevica. C'è un punto in cui si vede la tormenta lambire la strada, ed eccoci infatti, sfiorati da una pioggia ghiacciata, a metà tra nevischio e blizard. Sfiniti dal tempo inclemente, troviamo finalmente un hotel ristorante dove fare una sosta per il pranzo. È un hotel di lusso, semideserto. Hanno appena finito di fare le pulizie, quando entriamo grondanti a rovinargli il lavoro. Ma nessuno si scompone, e dopo poco siamo seduti davanti a una meravigliosa zuppa calda e a un filetto di merluzzo. Poco dopo di noi, entrano i tre tedeschi incontrati due giorni prima a Höfn. Ci salutiamo e scambiamo due parole sul cibo e sul clima. Scherziamo sulla quantità di tempo necessaria per andare alla toilette con tutta l'attrezzatura antiacqua e antivento che abbiamo addosso.
Quando ripartiamo, il vento è cambiato. Ora è un po' contro e un po' di lato, a seconda di come gira la strada. Come previsto, del resto, dalla bibbia del viaggiatore in Islanda, e cioè il sito vedur.is, che per ogni zona del paese e ora del giorno dà direzione e intensità del vento. In metri al secondo, non in nodi. Abbiamo imparato a temere il vento contrario superiore ai 4-5 metri al secondo. A 10 metri la fatica è già immane. Sopra i 15 diventa quasi impossibile muoversi.
I chilometri calcolati per oggi sono quasi fatti. Ma come sempre ce n'è qualcuno in più. La meta si inizia a intravedere ma è più lontana di quanto sembra. Alla fine, ecco il bivio per Skaftafell, mentre il vento si fa sempre più forte. Il campeggio del parco nazionale è un porto di mare, enorme e affollato, ma la struttura è ottima. Dopo aver sistemato la tenda, una breve passeggiata ci porta sul colle sovrastante fino a Svartifoss, la cascata nera che precipita tra altissime colonne di basalto esagonale che sembrano opera dell'uomo. Come immense canne d'organo. Dall'alto, lo sguardo vola a perdita d'occhio sullo Skeidararsandur, l'immensa piana alluvionale creata dai detriti dei ghiacciai.

 10 agosto: Skaftafell-Kirkjubaejarklaustur (km 74)



Da queste parti la forza degli elementi è incontenibile. All'inizio dello Skeidararsandur, l'ultima alluvione provocata da un'eruzione vulcanica sotto il ghiacciaio è ricordata da un monumento fatto con le travi di un ponte piegate dalla potenza dell'acqua. Qui davanti incontriamo un pullman di austriaci che, come di solito, si accalcano intorno a noi facendoci mille domande: quale percorso, quanti km al giorno...
Il vento è piuttosto forte ma a favore, e l'umore ha immediatamente una scossa positiva. Pioviggina, ma questo non ha importanza. Anzi, ci salva dalla polvere e dalla sabbia che con il tempo asciutto si solleverebbero rendendo tutto più difficile. Il nome Sandur ha infatti in sé la sabbia, l'elemento principale di questo tipo di territori creati dall'unione devastante di vulcani e ghiacciai.
L'occhio si perde sulla strada dritta che sembra proseguire all'infinito in questa piana sterminata. Qui sotto ci sono mille rivoli di acqua, probabilmente anche sabbie mobili. Verso la fine il vento gira leggermente e diventa poco per volta laterale: soffia direttamente dai ghiacciai. È sempre più forte, e le borse fanno effetto vela facendoci vacillare. Qualche raffica ci sposta, preghiamo che le poche auto che passano siano attente a evitarci, perché diventa sempre più difficile tenere la destra. Poco davanti a noi, una dorsale di montagne inizia a levarsi a destra della strada. Forse è la salvezza. Forse ci ripareranno un po' dal vento. Ma non è così. D'altronde questa è una delle zone del paese più battute dai venti, e segnalata come pericolosa sulle cartine stradali. E infatti, tra le gole strette che separano le montagne, il vento si incanala acquistando una forza impressionante. È impossibile rimanere in sella, ci proviamo ma veniamo scaraventati dall'altro lato della carreggiata. Non si riesce nemmeno a stare in piedi tenendo la bici, quando arriva la raffica non resta che fermarsi e cercare di opporvisi con tutte le nostre forze. Anche le poche automobili che passano sbandano. A perdita d'occhio, non si intravede un luogo in cui ripararsi. Non resta che proseguire lentamente a piedi, fermandosi a ogni raffica. Qui la natura ti ricorda ancora quello che sei, stupido piccolo umano con la tua presunta onnipotenza. Passano due ragazzi a piedi, ci offrono una barretta prima di infilarsi al sicuro (si fa per dire) nella loro automobile. In realtà l'inferno dura pochi chilometri, ma sembrano centinaia. Riusciamo in qualche modo a conquistarne la fine, quando la strada fa una curva e ci troviamo questo vento infernale alle spalle. All'inizio è ancora talmente forte che fa paura anche a favore, sembra di prendere il volo. Poi, poco per volta, diminuisce quel tanto che basta per controllare le biciclette, e allora diventa amico, e ti spinge facendoti sentire senza peso e senza fatica. Lasciati i sabbioni alle nostre spalle, il paesaggio ridiventa verde, e tornano a farci compagnia le pecore con i loro sguardi curiosi, che talvolta sembrano ridere divertite. Incrociamo un ciclista in direzione contraria, che arranca nel vento, lento, con fatica, ma sorridente. Sulla nostra destra si apre una valle verdissima, dai monti scende una delle tante cascate che sembrano arrivare direttamente dal cielo. Sotto, come in un'oasi di paradiso, è ferma una famiglia di francesi con due bambini, la bimba più grande con la sua bici e le borse, il fratellino agganciato alla bici del padre. Stanno per proseguire in direzione contraria alla nostra. Sono un po' preoccupati per il vento e ci chiedono notizie, cerchiamo di metterli in guardia, pensando non senza una certa apprensione a quello che li aspetta tra qualche chilometro. Pensiamo a quella bambina nel vento del ghiacciaio.
Poco più avanti, il villaggio dal nome impronunciabile ci aspetta. Kirkjubaejarklaustur. Significa "chiostro della fattoria della chiesa" o qualcosa di simile. Non è tardi e si potrebbe ancora proseguire, ma fino al prossimo insediamento umano la distanza è troppa. L'esperienza di oggi ci ha lasciato abbastanza senza forze. Qui c'è un campeggio, un supermercato, e, quel che ancora più ci attira, una piscina. Il riposo ideale, dopo aver faticato anche a trovare un posto per la tenda, perché il terreno è fradicio.
Dalla piscina, immersi in una rigenerante acqua calda, si gode una vista stupenda sulla catena di colline verdi che dominano il villaggio, da una delle quali precipita una cascata. C'è un'altra famiglia di francesi con due bimbi piccoli, e con loro siamo gli unici occupanti della piscina. Vengono da Metz.
Questo luogo, come tanti in Islanda, è legato ad antiche leggende. In un prato, poco distante, sembra esserci il vecchio pavimento di una chiesa, a pietre esagonali perfettamente regolari. Ma è solo un'altra delle incredibili formazioni di basalto vulcanico.
Nel campeggio incontriamo due signore olandesi di mezza età che hanno appena percorso in bici la pista di Sprengisandur. Quella piena di sabbia e guadi, quella che noi non abbiamo osato sfidare.






11 agosto: Kirkjubejarklaustur-Vik (km 77)


Oggi, in un attacco di ottimismo, pensiamo che si potrebbe arrivare anche fino a Skogar. Vediamo. Come sempre, tutto dipenderà dal vento. Il tempo è bello e caldo, è il primo giorno di sole pieno in tre settimane. Ma l'amico vento non ci abbandona, anzi. Soffia implacabile da ovest, dritto contro di noi. La paura di ieri è ancora forte. Basta che non sia così anche oggi. Attraversiamo il Myrdalssandur, un'altra delle distese alluvionali che riempiono a perdita d'occhio lo spazio tra i ghiacciai e l'oceano, che si indovina sempre laggiù, dove l'occhio finisce. Qui non sono sabbia e ciottoli come ieri, ma è lava coperta di morbidissimo muschio, che disegna strane formazioni, dando vita a un paesaggio da racconto fantastico, che quasi ti aspetti popolato da creature leggendarie. La Terra di Mezzo. Anzi, l'Ultima Thule.
Lo sguardo si perde sulla linea diritta e infinita della strada. Siamo in vista del vulcano Katla, uno dei più temibili del paese. Davanti a lui, sulla strada, c'è un sito dove la gente ha costruito con il tempo tanti omini di pietre, come quelli che si trovano sulle nostre montagne. Ognuno che passa aggiunge una pietra, e il suo viaggio sarà fortunato. Qui, un tempo, c'era una fattoria che è stata portata via da una delle tante rovinose eruzioni del vulcano. Ci sono anche alcune panchine e un tavolino, non è male come ristorante con vista vulcano. Anche se non puoi fermarti molto: ormai, anche se il tempo è bello, il vento ti è entrato nella pelle e nel corpo e la sensazione di freddo non ti abbandona mai.
La strada si avvicina al mare, attorno a noi iniziano immense distese di sabbia nera. Il vento è sempre più forte.
Un ponte e una lunga discesa nel vento ci portano a Vik. 
Ci fermiamo qui, siamo stanchi e poi vale la pena di passeggiare in riva all'oceano, liberi da ogni carico, sulla finissima sabbia nera, davanti alle tre rocce che si ergono dal mare - dicono siano tre troll sorpresi dalla luce del sole. Ancora creature fantastiche.
Qui, finalmente, dopo averlo intuito per giorni, visto apparire e poi di nuovo allontanarsi, possiamo toccare l'oceano. Almeno con le mani. È freddo. Ma forse meno di quanto si potrebbe pensare.
Nel campeggio, dietro di noi, in una piccola tenda singola c'è la ragazzina russa incontrata due settimane prima sulla pista di Kjölur. Ha una maglia con il logo della regione Piemonte. Ma non sa neppure che cos'è, ha comperato quella maglia in Russia perché le piaceva.






12 agosto: Vik-Skogar (km 35)


Dopo tre settimane la stanchezza è nelle ossa e sembra non andarsene più. Il tempo è stupendo, il vento sempre più forte. Uscendo da Vik, la strada torna ad allontanarsi dal mare inerpicandosi su un colle. In un attimo il paesaggio diventa quasi alpino.
Oggi saranno pochi chilometri. Ma ci sono dei muri che stroncano le gambe e fiaccano la volontà. Quelli dove la strada sembra arrampicarsi dritta verso il cielo.
A Skogar si concluderà il nostro viaggio, gli ultimi chilometri di rientro li faremo in pullman. Non abbiamo il coraggio di ripiombare nel traffico che, avvicinandoci di nuovo alla capitale, aumenta a vista d'occhio. E non c'è nulla di meglio dell'arrivo a Skogar in un giorno di sole, con la cascata di Skogafoss che forma nell'aria mille arcobaleni. Fermiamoci qui, non c'è posto più bello per concludere il viaggio.
I pullman di turisti affollano il sito; qualcuno, approfittando del sole, si butta in costume sotto la cascata. Puoi toccarla, sentirla, vederne i mille colori, e arrampicarti verso il cielo, da dove sembra nascere. L'aria sposta gli spruzzi e il vapore. In alto, sopra di essa, si apre una valle dove il fiume forma altre piccole cascate prima di precipitare definitivamente in quella grande. Sopra si erge il ghiacciaio Eyafiallajökull, sopra il vulcano che, pochi anni fa, ha bloccato per settimane il traffico aereo in mezzo mondo. A guardare bene, intorno si vedono ancora i segni. E soprattutto la cenere, quella polvere nera che calpesti ovunque, anche nelle docce del campeggio.
Dall'alto del colle si domina l'oceano. All'estremità più a est della costa visibile, l'immenso arco di pietra di Dyrholaey si allunga nel mare. Una grande tranquillità ci invade, il senso di un'impresa compiuta e di un meritato riposo in un luogo che sembra un Eden disegnato per noi. Poco per volta, la gente se ne va. Verso sera, rimangono solo le poche tende nel prato, sotto l'immenso muro di acqua che ora è tutto nostro. Possiamo avvicinarci, andarci sotto, lasciare che ci inondi e ci travolga con la sua potenza fino a sentirci dentro di lui, parte di lui, a contatto con l'energia pura degli elementi, anzi non è un semplice contatto ma una compenetrazione, un ritrovare il se stesso primordiale dentro l'elemento in cui è nato, alle radici della vita stessa

13-16 agosto, rientro


Oggi rientriamo in pullman fino alla capitale. Alla fermata troviamo una coppia di anziani americani, la moglie è al suo primo viaggio in bici. Parliamo dell'Italia e di Nibali, che ha appena vinto il Tour. Poi loro non salgono sul pullman, perché non va nella loro direzione. L'autista ci carica le bici senza troppi complimenti, qui sono abituati, speriamo di scaricarle intere... Avvicinandoci a Reykjavik abbiamo ancora una vista su alcuni grandi vulcani, mentre il traffico aumenta in modo pesante. Per fortuna siamo in pullman. Ci lascia in un quartiere periferico, per raggiungere il campeggio ci toccano ancora alcuni km di panico da superstrada, poi riusciamo a deviare e raggiungere il campeggio su strade secondarie.
Incredibile. Ci siamo. Siamo al punto di partenza, dove 3 settimane fa tutto ha avuto inizio. Ritroviamo i due ragazzi conosciuti a Myvatn. Abbiamo un paio di giorni per riposarci e riprenderci prima del volo di ritorno. Il giorno dopo, uno stupendo impianto di piscine ci accoglierà per una meritata giornata di relax, seguita da lunghe passeggiate in città.
Un ultimo viaggio verso l'aeroporto, una passeggiata sul porticciolo di Keflavik, e poi non resta che recuperare gli scatoloni, iniziare il lungo lavoro di imballaggio e salutare tutta la bellezza che in questa settimane ci ha inondato gli occhi. Torniamo a casa un po' più stanchi, un po' più ricchi, un po' più consapevoli. Dei nostri limiti, della nostra forza, ma soprattutto della vita, quella naturale e primordiale a cui apparteniamo e che il nostro quotidiano cerca di farci dimenticare.



Ringraziamo quindi Daniele Eratostene di Speedy Bike Garage, il nostro "spacciatore" di materiale ciclistico: senza di lui non saremmo riusciti ad avere altri sponsor. Ringraziamo il Comune di Rocchetta Tanaro per l'uso di due Mountain Bike che ci accompagneranno, Scott per i caschi e le scarpe e A.P.G s.r.l. per l'ottimo abbigliamento tecnico.



Seconda settimana





Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.