Prima settimana racconto

23 luglio: Italia-Reykjavik


È arrivato il momento da mesi atteso e temuto. In questa fredda e piovosa estate, non è strano partire da casa sotto un diluvio. Gli scatoloni che contengono i nostri sogni - oltre a giorni di lavoro a preparare, provare, imballare - vanno avvolti in teli di plastica per affrontare il viaggio. Consegnati gli scatoloni all'aeroporto, inizia l'ansia. Speriamo di ritrovare tutto e tutto intero! Se qualcosa va storto, l'intero viaggio è a rischio.
Il temporale furioso non accenna a smettere, il maltempo è talmente esteso da ritardare i voli di mezza Europa: partiamo con quasi tre ore di ritardo. Quando atterriamo a Reykjavik sono le 3.30, ma per il nostro orologio interno le 5.30.
Alla guesthouse accanto all'aeroporto c'è un enorme magazzino pieno di imballi di biciclette. Americani, tedeschi, spagnoli, francesi... Sono tutti in giro per il paese. Non saremo soli.



24 luglio: Keflavik-Reykjavik (km 51)


Dopo poche ore di sonno e un'abbondante colazione, è ora di aprire gli scatoloni. Per fortuna sembra tutto a posto. Inizia il montaggio.
Oggi andremo solo fino a Reykjavik. Piove e tira vento sulla desolata penisola di Reykjanes, il cui fascino selvaggio costituisce per tutti coloro che arrivano in aereo il primo assaggio di questo paese misterioso. L'unica strada che collega l'aeroporto internazionale alla capitale ci fa un po' paura, ma il traffico si rivela più scarso rispetto alla maggior parte delle strade italiane e c'è quasi sempre una banchina laterale. Solo l'ingresso in città è caotico, come prevedibile. Siamo pur sempre alle porte di una capitale europea. Il campeggio di Reykjavik è un modello di basso impatto ambientale, qui ecologia e riciclo sono le parole d'ordine, non si butta via niente, quello che non serve più si lascia per gli altri e si può prendere quello che gli altri lasciano. Cibo, combustibile per fornelli, carta igienica, stoviglie.
Per i ciclisti, che girano il paese senza inquinare, c'è lo sconto del 10%.
Oggi solo 51 km e un giro a piedi per la capitale, questa coloratissima città dalle casette di lamiera, piena di vita giovane e alternativa.





25 luglio: Reykjavik-Geysir (km 115)


È oggi che inizia il viaggio vero. È piovuto nella notte e continua: già dal primo giorno si smonta la tenda sotto la pioggia. Uscire dalla capitale è un'impresa: la città è stretta da una tangenziale a quattro corsie, con continue uscite laterali e camion che ci sfrecciano a fianco. È come pedalare in autostrada, solo che non è vietata alle bici.


Scappiamo disperati in una delle poche strade laterali, un po' alla cieca. Meno male che esiste il GPS. A un certo punto, però, bisogna forzatamente rientrare sulla strada principale, che fortunatamente nel frattempo è tornata a dimensioni vivibili, anche per i ciclisti. È la famosa strada n. 1, la Ring Road che fa il giro dell'isola.
Deviando successivamente sulla strada che porta a Thingvellir, il traffico quasi scompare; in compenso ecco subito un assaggio della fatica che ci accompagnerà nei prossimi giorni. La strada è fatta di continui saliscendi molto ripidi, il vento è contrario e piove.
Eccoci finalmente in alto. Sotto di noi si apre, enorme e quasi a perdita d'occhio, il lago Thingvallavatn. Intorno c'è odore di zolfo: si iniziano a percepire le inquietudini sotterranee che pervadono questa terra.
Finalmente un po' di discesa. Thingvellir, la pianura dove nacque il primo parlamento norreno, è come sempre affollata di turisti che passeggiano in mezzo alle spaccature della dorsale nordatlantica. La folla e le passerelle di legno deturpano un po' il paesaggio.
La strada prosegue all'interno del parco nazionale, con i suoi saliscendi in mezzo a formazioni geologiche bizzarre, spaccature, sismografi che rilevano i movimenti delle faglie. Saliscendi piuttosto duri fino a Laugarvatn, il lago attorno al quale scorre una sorgente calda. Di nuovo un po' di discesa ci incoraggia a continuare, mancano 30 km a Geysir. Il tempo si è chiuso del tutto, ora piove di nuovo fortissimo ma per fortuna è discesa e il vento è clemente. “Courageous”, ci ha apostrofati un uomo mentre eravamo fermi a Laugarvatn.
Geysir si avvicina, siamo emozionati. Sarà perché stiamo andando verso uno dei siti geotermici più famosi del mondo, che ha dato il suo nome a tutti gli altri. Sarà perché si comincia davvero a sentirsi “dentro” il viaggio. Iniziamo a scrutare l'orizzonte... dopo un po' le vediamo, da lontano, sulla collina davanti a noi: intermittenti e puntuali, enormi colonne di vapore bianco.
A Geysir decidiamo di concederci la notte in uno dei bungalow dell'hotel. Dopo una bagno ristoratore nella piscina calda e una cena, siamo pronti per goderci da vicino tutta l'area geotermale, con le pozze colorate che sembrano andare dritte al centro della terra, i getti di vapore e acqua bollenti, e soprattutto Strokkur, il geysir che esplode ogni 5-10 minuti con getti alti fino a 15 metri. Staresti delle ore a contemplare l'acqua che si muove, si gonfia, si gonfia, fino a creare una bolla blu che esplode. Sono le 23.30 e c'è appena un leggero crepuscolo. È ora di andare a dormire, domani sarà dura.







26 luglio: Geysir-lago Hvitarvatn sulla pista di Kjölur (km 59)


Dopo una colazione ipercalorica con vista geysir, si parte. La prima tappa, dopo una ventina di chilometri, è un altro must turistico: la cascata di Gullfoss. Peccato che non ci sia il sole, chissà come sarebbe. Ma lo spettacolo è comunque imponente. Capannelli di turisti sbarcati dai pullman osservano curiosi le nostre biciclette ferme. Un gruppo di greci ci fotografa.
Dopo Gullfoss iniziano i cartelli della strada 35, che tra poco si trasformerà in F35. F indica le strade di montagna, quelle riservate ai fuoristrada e aperte solo un paio di mesi all'anno. La 35 è una delle leggendarie piste interne, la pista di Kjölur. L'abbiamo sognata e temuta per mesi, ora eccola davanti a noi con il suo nome carico di misteriose, inquietanti attese. Ora per almeno tre giorni saremo lontani da qualsiasi insediamento umano, soli in mezzo a una natura che qui gioca alla grande. Il primo tratto è ancora asfaltato, anche se già in mezzo al nulla. Iniziano a profilarsi all'orizzonte, minacciosi, i monti che dovremo attraversare: le forme coniche ci ricordano che la maggior parte sono vulcani. Per ora intorno a noi c'è ancora erba, le pecore pascolano, sempre rigorosamente a gruppi di tre. Ogni tanto la strada è interrotta da griglie che delimitano le proprietà dei pascoli. Bisogna fare attenzione a non sterzare per non finirci dentro con le ruote. L'orizzonte è di una vastità impressionante, l'occhio si perde a seguire la strada che sembra snodarsi davanti a noi all'infinito. A un certo punto ecco il fatidico cartello: "Gravel road ahead". Divieto di proseguire alle auto non 4x4 e divieto di guidare fuori strada. Alcune foto mostrano i danni arrecati dagli sciagurati che si divertono a guidare off road le enormi e spaventose superjeep che così spesso nei prossimi giorni ci faranno mangiare la polvere.
All'inizio la pista è molto ben battuta e si procede abbastanza speditamente, sempre con saliscendi. Finché a un certo punto una discesa ripidissima e piuttosto sconnessa ci porta in fondo alla valle, dove scorre un fiume. Buche e spaccature trasversali rendono la discesa piuttosto impegnativa. Procediamo con estrema cautela, la paura di farsi male o rompere qualcosa è forte. Basta poco a rovinarsi il viaggio.
Dopo il fiume la strada si impenna: è iniziata la salita per il passo di Blavell. Questo primo tratto è quasi un muro, sconnesso e pietroso, quasi impossibile restare in sella fino alla fine, con il peso che trasciniamo. Il passo è proprio a lato del monte che sta davanti a noi e domina gran parte della visuale. A chilometri di distanza si vede la strada che si arrampica. Il silenzio è interrotto solo da canti di uccelli e talvolta dal più prosaico rombare di jeep e hummer che transitano a una velocità del tutto dissonante con l'ambiente che ci circonda. Si alternano muri e muretti, salite e discese: un altro di questi costringe a scendere e spingere per un breve tratto, mentre costeggiamo un'altissima parete di pietre e detriti alla nostra sinistra. Il paesaggio diventa a poco a poco sempre più lunare. In alcuni punti, la strada sembra arrampicarsi verso il cielo. In cima a una di queste salite, una ragazza giovanissima è ferma, da sola, con la sua mountain bike, e contempla l'orizzonte. Sembra una visione, così sola in mezzo a queste montagne.
Ecco finalmente la cima del passo di Blavell. Siamo davanti a due dei ghiacciai più grandi dell'isola - e dell'Europa intera, sembra di toccarli. Sono così grandi che li vedremo ancora per giorni. Dietro di noi, il monte che abbiamo appena superato. Il pendio è verde, chiazzato di neve. C'è un po' di sole, ma ogni tanto qualche spruzzo di pioggia. In Islanda, molto spesso, uno non esclude l'altro.
A tratti ora fa quasi caldo. Inizia la discesa e il fondo della pista peggiora sensibilmente. Bisogna procedere con cautela per evitare i buchi. Si apre davanti a noi la valle del lago Hvitarvatn. L'occhio spazia su un orizzonte lunghissimo. Passa qualche ciclista ogni tanto. Il Langjökull, secondo ghiacciaio di Islanda, è sempre più vicino.
In momenti come questo si recupera un contatto profondo con l'energia primordiale della terra, quella che non sentiamo più nel nostro quotidiano artificiale.
Sulla riva di un fiume, proprio davanti al ghiacciaio, si materializza un rifugio. Sembra una visione. Un caffè, delle casette di legno. Tre donne, probabilmente tre generazioni, ci accolgono. Sono sole con alcune pecore. Il dormitorio e la cucina sono tutti per noi.
Alle 21.30, dalla finestra, il sole è altissimo, sopra il ghiacciaio che stringe una montagna in mezzo a due lingue. Sopra, si indovina un nevaio perenne.

27 luglio: Hvitarvatn-Hveravellir (km 51)


Forse è vero che tra queste montagne ci sono fantasmi e creature misteriose. Strani passi che rimbombano nel legno ci accompagnano tutta la notte. In realtà sono le pecore che camminano intorno al rifugio, calpestando le passerelle.

Ancora due parole con queste tre donne che vivono nel deserto, poi si riparte. Sono scomparse le ultime parvenze di presenza umana. Il paesaggio ultraterreno è dominato dai due ghiacciai, ora da entrambi i lati.
Ieri era troppo facile... proseguendo verso l'interno le condizioni della strada peggiorano notevolmente, bisogna restare concentrati per non perdere l'equilibrio tra sassi, ghiaia, buche. Oggi è nuvoloso, ma forse non pioverà. La sommità di un piccolo colle battuto dal vento sarà la nostra sala da pranzo. Vista sconfinata sui ghiacciai, l'occhio si perde per decine di chilometri, non trova barriere. La strada si snoda tortuosa, davanti a noi e dietro di noi, non ne vedi la fine, ed è proprio quello il fascino un po' inquietante delle piste in mezzo al deserto, la libertà sconfinata ma anche la fatica mentale di non vedere un punto di arrivo o di riposo.

Per un po' abbiamo vento a favore, e qualche tratto più liscio dà un po' di sollievo, soprattutto alla mente, concentrata sull'attenzione alla strada e all’imprevisto. Dopo un po' però la strada cambia direzione, il vento diventa laterale ed è sempre più difficile controllare le bici. Gli ultimi dieci chilometri sono lunghissimi. Ma quando ti sembra di non farcela più, basta fermarsi un attimo e guardarsi intorno. E anche indietro, alla strada già fatta. E allora sai che ne vale la pena. Nell'ultimo tratto in salita, sui sassi e controvento, qualcuno da un'auto ci incoraggia. “You're almost there”, ci siete quasi.
Ecco Hveravellir, il sito incastrato in una valle dove fumarole e sorgenti calde sembrano arrivare dal centro della terra. Pozze di tutti i colori, vulcani in miniatura. La terra fuma dappertutto. Il freddo è quasi insopportabile. Mettiamo la tenda nel campeggio accanto a un torrente. L'acqua è tiepida, quasi calda. Arriva da un sorgente, poco sopra, dove sgorga a 80 gradi.


28 luglio: Hveravellir-Ring road (km 95)




Tutta la notte vento e pioggia scuotono la tenda. Un po' di ansia per l'indomani, pensiamo a come sarà la strada, cerchiamo di ragionare sulla direzione del vento... stiamo iniziando a capire che il vento è la cosa più importante. Contrario, in queste condizioni è in grado di fermarti. Chissà se riusciremo a partire, chissà quanta strada faremo. La mattina è gelido e soffia forte... ma la strada cambia direzione, subito non capisci come sarà... improvvisamente sembra cessare, ma non è così. Quando non lo senti più, vuol dire che è a favore. Basta fermarsi e girarsi indietro per accorgersene.

Anche la strada sembra meno sconnessa di ieri, chissà che il peggio non sia passato. Ora però ecco, a tratti, la famigerata ondulina, tipica delle piste dove passano i fuoristrada e incubo di tutti i cicloviaggiatori. È una continua ricerca dei punti più lisci, la paura è di nuovo che le vibrazioni possano provocare danni meccanici. L'orizzonte è infinito. Dietro di noi il ghiacciaio, con le sue lingue come enormi dita. Incombono nuvoloni neri che minacciano pioggia. A un certo punto, su un'altura nel nulla, compare una casetta arancio, uno dei rifugi per viaggiatori sparsi nei punti più isolati del paese. Qui, tra gli adesivi di club alpini e sportivi di mezzo mondo, da oggi ci saranno anche i segni del nostro passaggio.

A poco a poco, da uno strano pianeta si torna verso la terra. La strada passa in mezzo a due laghi, dove purtroppo si avverte di nuovo pesantemente la mano dell'uomo che ha costruito dighe e centrali elettriche. Finiscono le pietre, ora la strada è terra battuta, liscia, ma con buchi insidiosi. Sosta per un rifugio in mezzo a due laghi: avevamo pensato di concludere lì la tappa ma il vento ci ha graziati con la sua spinta, ne approfitteremo per continuare il più possibile. Mangiamo una squisita zuppa di verdure con carne di pecora. Poi via, a sfruttare questo vento fortissimo che ti fa sembrare di essere su una bici elettrica. “Tutto di qui è meglio che di là”, ci dice la signora del rifugio. La strada migliora ancora, il paesaggio si fa più verde. Ricompaiono le pecore. A un certo punto, la strada ridiventa asfaltata e precipita a picco verso un canyon verdissimo, dove l'acqua cade tra alte rocce. Lungo un fiume ricompaiono insediamenti umani, fattorie, mucche, cavalli.

Sono gli ultimi chilometri, ma la fatica inizia a essere tanta. Finalmente ecco l'incrocio con la strada n. 1. La cartina segnala un campeggio subito dopo l'incrocio, in realtà è un minuscolo insediamento fatto di una chiesa e una fattoria - è qui che dormiremo, in quello che doveva essere una volta un vecchio cinema o teatrino di parrocchia. Non c'è nessuno tranne i proprietari. Uno spazio immenso tutto per noi dopo giorni di tenda. Dalla finestra si vede la strada, che si arrampica tra le montagne con una pendenza impressionante. Ma ci penseremo domani... anche se un po' di preoccupazione non ci abbandonerà durante la notte.




29 luglio: incrocio pista di Kjölur nord/Ring Road-Akureyri (km 120)




Se credevamo che, una volta usciti dalla pista interna, tutto fosse più facile, ci sbagliavamo. La tappa di oggi sarà una delle più faticose di tutto il viaggio. Saranno passi di alta montagna uno dopo l'altro, fin dall'inizio. A volte la strada sembra spianare un po', ma poi dietro la curva si arrampica di nuovo... le pendenze sono molto impegnative, tante volte superano il 10%. E il carico è tanto. La discesa è inevitabilmente controvento, continui a pedalare e non superi i 16 chilometri l'ora. E poi di nuovo in salita. Eppure ci sembrava che Akureyri fosse sul mare!! Non vedi più la fine di questa giornata. Inizi a vedere il fiordo in lontananza e ti illudi, ma qui gli orizzonti ingannano, quello che sembra vicino è a decine di chilometri. Il vento contrario è teso da nord, sembra arrivare direttamente dal polo. Meglio non fermarsi più di qualche minuto, fa troppo freddo. In momenti come questo hai la tentazione di cedere, guai se pensi alla fatica. Devi sempre guardarti intorno e ricordarti dove sei. Solo questo ti fa andare avanti. I momenti in cui sogni solo un letto caldo e una doccia fanno parte del gioco.


Akureyri, dopo giorni di deserto, è una metropoli. Casette colorate, un piccolo porto in cima a un fiordo. Arriviamo fradici e stremati. Questa sera il campeggio non ci attira tanto, preferiamo una stanza di albergo e un buon ristorante, anche agli sconvolgenti prezzi islandesi. Alcune Guesthouse ci mandano indietro perché non hanno più posto, ma sospettiamo che in realtà non tutti gradiscano ciclisti infangati che gli sporcano la moquette. Troviamo comunque una stanza confortevole e un ristorante meraviglioso, con vista panoramica sul porto, dove scopriamo l'esistenza del pesce lupo. Meraviglioso e saporito, se si esclude un attimo di panico vedendo la consistenza e il colore della carne, così rossa da far temere non sia un pesce... e in questo paese in cui, in barba alle norme internazionali, si pescano le balene, un sospetto ti viene.





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