Il ciclista e la tartaruga

Il ciclista e la tartaruga - un racconto di Emilia Giribaldi e Gigi Rolando

Era una mattina di giugno che annunciava una giornata tiepida, il sole non era ancora spuntato a riscaldare la città semiaddormentata e deserta, attraversata dal solo fruscio dei pedali di un uomo che si recava al lavoro, come ogni mattina, con la sua bicicletta. Muovendosi così cercava da tempo di riappropriarsi del ritmo lento, di sottrarsi alla frenesia della vita innaturale imposta da un sistema comandato dal dio denaro. Guardandosi intorno e osservando i suoi simili si sentiva soddisfatto: vedeva file di auto ferme, il cui quasi sempre unico abitante fremeva di impazienza premendo a scatti sull’acceleratore e sputando nell’aria inutili veleni, digitando nervosamente sulla tastiera dell’iPhone, urlando insulti di ogni genere a chiunque si frapponesse tra lui e la sua fretta. Fretta di andare al lavoro, di ritirare i figli da uno dei parcheggi quotidiani in cui vengono depositati, di buttarsi in una palestra a camminare su un tappeto per smaltire il nervoso e i chili accumulati per tutte le ore passate in auto illudendosi di essere veloci. Vedeva gente correre nervosa, urtarsi, attraversare vie, piazze e parchi urlando in telefoni e auricolari, senza alzare mai lo sguardo verso il cielo, senza avere coscienza dei cambiamenti intorno a loro, del passaggio delle stagioni che, anche in città, coloravano diversamente i viali e giardini, dal bianco dell’inverno ai mille colori della primavera e dell’autunno. Vedeva gente invadere i templi del consumo facile, del “tutto pronto” e del “tutto compreso”, del riso che cuoce in 12 minuti anziché in 20 perché “non c’è tempo”, perché si va di fretta per lavorare di più, allo scopo di guadagnare di più per potersi comprare più oggetti che ti fanno risparmiare tempo per poter lavorare di più per poter guadagnare di più…
Si sentiva decisamente soddisfatto e migliore degli altri. Usava pochissimo l’auto, guardava spesso il cielo, cercava di afferrare il senso del tempo, delle stagioni, della natura.
Tuttavia quella mattina era nervoso, perché era più tardi del solito e rischiava di arrivare in ritardo al lavoro. Si fermò a un incrocio, e ripartì spingendo sui pedali, in piedi, per essere più veloce. Entrò nel parco e passò veloce accanto a uno stagno, a quello stesso stagno dove ogni tanto si fermava un attimo a osservare i pesci e soprattutto le tartarughe, l’emblema di quella lentezza che sembrava essere sparita dal cosiddetto mondo civile, anzi, era considerata un grave difetto e una caratteristica dei perdenti.
Mentre passava, distratto e tormentato da una sottile inquietudine per il timore di arrivare in ritardo, gli parve di sentire una voce che lo chiamava.
Ma il parco a quell’ora era deserto, nessuno aveva tempo di passeggiare, i pochi a piedi correvano nervosi sui marciapiedi della cità e in mezzo al traffico. “Ehi! Ma dove corri?” – questa volta era sicuro, qualcuno lo chiamava. Premendo sui freni si arrestò, e si girò verso lo stagno che aveva appena superato, ma continuava a non vedere nessuno. Nessuno tranne una delle tartarughe, che lo guardava con espressione interrogativa. Mentre, ancora assonnato, l’uomo cercava di capire chi gli stesse rivolgendo la parola, risentì la stessa voce. Questa volta non ebbe più dubbi: la tartaruga gli stava parlando. Tornò verso lo stagno e si appoggiò alla ringhiera, stordito, credendo di sognare. “Sì, sono proprio io che parlo, e sto parlando con te! Non capisco questo tuo strano modo di spostarti, così veloce”. “Veloce?” pensò l’uomo tra sé… “eppure, se mi guardo intorno, mi sembra di essere già tra quelli che vanno più lenti…” Sempre convinto di sognare, rispose: “mi sposto al mattino a quest’ora per andare da casa mia al luogo dove lavoro, e poi alla sera ripercorro la stessa strada per tornare a casa. Così è scandito il mio tempo quotidiano”. La tartaruga non capiva il senso di questo movimento frenetico. “Che significa questo andare da un posto all’altro e poi tornare? E perché così di fretta? E che significa tempo?” “Ho degli obblighi e degli orari da rispettare” rispose l’uomo. “Orari? Tempo? e che significa? Il movimento per me è legato al solo spazio che mi circonda, che posso riempire e attraversare come voglio, non ho bisogno di nulla, non ho bisogno di itinerari prestabiliti, tutto ciò che mi occorre, e cioè la mia casa, è qui con me. Quando voglio smetto di camminare e mi ci rifugio dentro per riposarmi, quando ho fame cerco del cibo, quando il sole mi chiama con i suoi raggi mi fermo a sentirlo, e poi riprendo a muovermi. Non c’è niente se non questo luogo, io sono un tutt’uno con lui e lui con me. Tu che cosa sei? Qual è la tua casa? Qual è il tuo spazio? Perché devi correre verso un luogo, invece di abitare quello in cui ti trovi?”
L’uomo tacque, perplesso. Eppure erano anni che si sforzava di vivere il presente, di cogliere l’essenza della vita al di là dell’assurdo quotidiano, si sentiva superiore ai suoi simili occupati solo a correre… ma forse si poteva essere ancora molto, molto diversi. Forse c’era ancora molta strada da fare. Forse tra lui e i nevrastenici in SUV c’era una differenza molto più piccola di quella che c’era tra lui e la tartaruga, anzi, era così piccola da essere impercettibile agli occhi dell’animale. Immagini indistinte del passato e del presente, di persone che correvano, di luoghi che cambiavano continuamente e si sovrapponevano l’uno all’altro gli passavano davanti agli occhi… poi un suono dapprima lontano catturò la sua attenzione, divenne sempre più forte fino a distoglierlo dai suoi pensieri…
L’uomo si svegliò, la sveglia suonava, erano le 6 del mattino. Aprì gli occhi a fatica. Le parole della tartaruga erano scolpite nella sua mente, nitide, stentava a credere che fosse stato un sogno. Rimase fermo a riflettere. Cercò di trovare un nesso tra la sua quotidianità e l’essenza della vita, ma non lo trovò. Poi sentì le rondini e altri uccelli cinguettare, si alzò e aprì la finestra. L’albero del cortile lo salutò con i rami che sembravano tendere verso di lui e sentì forte il profumo di quella tarda primavera che già andava verso l’estate. Sentì, forte come non mai, l’innaturalità di quell’ennesima giornata che stava per iniziare. Rimase ancora un po’ fermo davanti alla finestra ad annusare l’aria e a fissare il rettangolo azzurro di cielo davanti a lui. Poi con calma assaporò la colazione, si vestì e uscì con la sua fedelissima bicicletta nell’aria fresca del mattino. Arrivato al parco che attraversava tutti i giorni, si fermò e contemplò i pesci e le tartarughe nello stagno. Una di loro sembrava guardarlo con aria di intesa… rimase ancora un attimo, poi risalì sulla bici, ma non si diresse subito verso l’ufficio. Andò verso la collina, respirando l’aria non ancora satura del traffico quotidiano, annusando i profumi dei tigli fioriti, riempiendosi gli occhi della luce magica del mattino. Si sentiva vivo come da molto tempo non gli capitava più. Molto più vivo di tante volte in cui aveva avuto la medesima sensazione, ma, ora se ne accorgeva, molto più offuscata e morbida, nata più da un confronto con altri che non da un viaggio dentro di sé. Si fermò ancora un attimo a guardare una farfalla su un fiore e ad ascoltare i mille suoni della natura.
Scese dalla collina e si avviò tranquillamente verso l’ufficio. Entrò e si rese conto di essere in ritardo. Ma nessuno sembrava accorgersene. Passò il superiore e si salutarono con un cenno distratto. Era una mattina come le altre, il suo ritardo era stato ininfluente sul normale andamento delle cose. Si sedette alla scrivania e guardò l’ora: le 8.10. Eppure gli era sembrato di vivere dei momenti lunghissimi e intensi. In realtà, era solo in ritardo di 10 minuti.